La biografia di Dante Alighieri
I primi anni e la famiglia
Dante Alighieri, diminutivo di Durante degli Aglighieri, nacque in una località tra la chiesa di Orsanmichele e l’abbazia di Santa Maria (Badia), in una Firenze dominata dai ghibellini, tra la seconda metà di maggio e la prima metà di giugno del 1265. La data precisa della nascita del Sommo Poeta è incerta, ma egli stesso, nel XXII canto del Paradiso, scrisse di essere nato sotto il segno dei Gemelli. Il cognome, Alighieri, deriva dal nome di battesimo del bisnonno di Dante (Alighiero). Nella Firenze di Dante, la maggior parte delle persone erano conosciute semplicemente con il proprio nome di battesimo oltre a quello del padre; avere un cognome significava appartenere a una famiglia influente, distinta dalle altre e che contava qualcosa in città.
Il padre, Alighiero di Bellincione, fu un piccolo proprietario terriero. Di lui non si sa nulla, Dante mantenne il più rigoroso silenzio. Un accenno oscuro di Forese Donati (poeta, amico di Dante), e del notaio di Prato Jacopo di Pandolfino, ci lascia supporre che fosse uno strozzino. La madre, Bella, forse della famiglia degli Abati, morì pochi anni dopo aver messo al mondo il bambino. Alighiero di Bellincione si risposò con una certa Lapa, da cui ebbe altri tre figli. Secondo un fuggevole accenno nella Vita Nova, nella seconda famiglia regnavano un certo affetto e una buona armonia. Il primo dei fratellastri, Francesco, aiutò spesso Dante con generosi prestiti di denaro.
La famiglia non ebbe un ruolo particolarmente importante nella politica di Firenze e nelle lotte tra le fazioni opposte dei guelfi e dei ghibellini che allora l’attraversavano, infatti continuò a risiedere in città nonostante la grave situazione in cui si trovava la parte guelfa a seguito della sconfitta nella battaglia di Montaperti (1260).
Il primo incontro con Beatrice Portinari
Il primo maggio, a Firenze, vi era l’usanza di solennizzare la primavera; ovviamente in compagnie separate: le donne con le donne e gli uomini con gli uomini. I bambini (maschi e femmine) andavano con gli uomini, soprattutto ai luoghi di festa. Folco Portinari, un cittadino molto ricco, aveva invitato i vicini nella propria casa a festeggiare e tra questi partecipò anche Alighiero con il figlio Dante. In quest’occasione Dante, di soli nove anni, incontrò per la prima volta Beatrice, figlia di Folco Portinari, di pochi mesi più giovane di lui, vestita di «nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno […]» (Vita nuova). Da quel momento, Bice, divenne la musa ispiratrice del futuro poeta, «la gloriosa donna de la mia mente», nonché la prima donna della poesia italiana di tutti i tempi.
Il matrimonio con Gemma Donati
Nel 1285 Dante sposò, con matrimonio combinato dai genitori sancito da un contratto notarile nel 1277, Gemma di Manetto Donati, appartenete a una delle famiglie guelfe più illustri di Firenze. Dal matrimonio nacquero sicuramente alcuni figli: Jacopo, Pietro, Antonia, che divenne suora con il nome di Beatrice, e forse anche un quarto figlio di nome Giovanni.
La formazione
Dante frequentò regolarmente le scuole di Firenze, ma si formò per proprio conto una vasta cultura. Il trivio e il quadrivio, le scuole medie del suo tempo, gli insegnarono a leggere, a scrivere, «a far di conto»; lo avviarono al disegno e gli diedero le prime nozioni di etica, di metafisica e di astronomia. Il maggior contributo alla formazione culturale del giovane fu portato da Brunetto Latini, notaio e scrittore, funzionario del comune di Firenze, innamorato delle lettere, il quale approfittò di un periodo di esilio per accostarsi alla cultura europea nei suoi centri maggiori, in particolare a Parigi dove svolse la professione di notaio per vivere. Rientrato a Firenze, Latini, era ricercatissimo da giovani intellettuali per le sue aperte vedute.
Brunetto Latini, in quel periodo, era famoso proprio per i suoi studi sull’arte retorica (la disciplina del parlare e dello scrivere) applicata alla politica.
L’attività poetica di Dante, «l’arte del dire parole per rima», iniziò, con ogni probabilità, a Firenze, verso i 18 anni, dopo aver incontrato per una seconda volta Beatrice. Il rinnovato amore lo spinse decisamente alla poesia. Le prime canzoni gli attirarono l’attenzione di Guido Cavalcanti, un poeta molto in voga in quel tempo (uno dei migliori prima di Dante), con il quale Dante strinse un’importante amicizia.
Le armi e il periodo degli studi filosofici – il periodo del “traviamento”
Tra il 1286 e il 1287, secondo quanto raccontato da Giovanni Boccaccio – ammiratore, biografo e studioso del Sommo Poeta -, Dante soggiornò per un breve periodo a Bologna, sede di un importante centro universitario.
Nel 1289 Dante combatté molto giovane a Campaldino, una delle innumerevoli battaglie delle eterne guerre tra i comuni della Penisola: vi era una guerra contro Arezzo, dove i ghibellini prevalevano. Nello stesso anno partecipò altresì a un’altra impresa di guerra: la conquista del Castello di Caprona, contro i Pisani. Insomma, Dante si formò in una Firenze dominata da lotte continue tra le fazioni, nella quale anche la figura dell’intellettuale svolgeva un ruolo politico.
La prematura morte di Beatrice Portinari portò Dante ad abbandonare momentaneamente la poesia per trovare conforto nella filosofia; in particolare, lesse, inizialmente con fatica, le opere di Boezio e Cicerone. Frequentò le due principali scuole fiorentine del tempo: lo “stadium” francescano di Santa Croce e quello domenicano di Santa Maria Novella (specializzato nello studio di Aristotele, filoso greco del IV secolo a.C.). Lo studio della filosofia, secondo la testimonianza dallo stesso Dante nel Convivio, durò circa trenta mesi.
Il rimprovero dell’amico Guido Cavalcanti
Dante non riuscì comunque a trovare conforto né nella filosofia né nella famiglia, tanto da seguire l’amico Forese Donati per scoprire il piacere delle gaie brigate, dei lauti festini, degli spregiudicati conversari con le varie Lisette e Fiorette e Fiammette. Si era altresì lasciato trascinare perfino ad una pubblica “tenzone” in versi con Forese, una sorta di gara di insulti in cui i virtuosissimi letterati scivolavano spesso nella volgarità.
Il grande amico Cavalcanti si sentì obbligato a rimproverarlo in un sonetto: «Or non ardisco, per la vil tua vita, / far mostramento che tu’ dir mi piaccia»
La produzione giovanile
La crisi terminò con la stesura della Vita nuova tra il 1292 e il 1293 e ultimata, quasi certamente, nel 1294. La Vita nuova è un’opera in prosa e versi (appartiene al genere letterario del “prosimetro”), in cui Dante narrò la storia del suo amore per Beatrice. Attraverso la descrizione dell’amore per Bice – colei che portò alla salvezza dell’anima -, il poeta compì un percorso di “rinnovamento” sia spirituale che poetico: Dante riprese e sintetizzò la propria esperienza stilnovista, avviandosi però ad oltrepassarla. La donna amata viene – nell’opera – lodata per le sue virtù senza voler ottenere nulla in cambio (“poetica della lode”) e l’amore si trasforma in una contemplazione disinteressata e beatificante di carattere religioso.
Dante in politica
La modifica di provvedimento del governo della città di Firenze, nel 1295, estendeva nuovamente ai nobili l’accesso alle cariche pubbliche, purché essi risultassero iscritti ad una corporazione di arti e mestieri. Dante, appartenendo alla piccola nobiltà cittadina, poté iscriversi alla corporazione dei Medici e degli Spaziali per entrare in politica; si fece prima eleggere nel consiglio del popolo (consiglio dei trentasei) e poi, nel 1296, nel consiglio dei Cento. Fu al culmine della sua attività politica nel bimestre 15 giugno – 15 agosto quando ricoprì la prestigiosa carica di priore (era uno dei sei Priori di Firenze – il priorato, dopo quella di podestà, era la più alta carica pubblica del comune).
In quel periodo, Firenze, fu coinvolta in un’ulteriore stagione di lotte civili: si erano create due fazioni all’interno del partito guelfo: i guelfi bianchi e i guelfi neri, guidati rispettivamente dalle potenti famiglie dei Cerchi e dei Donati. Attraverso i guelfi neri, papa Bonifacio VIII cercò di controllare la vita politica della ricca città toscana, appoggiandone la politica teocratica (ovvero la subordinazione di qualsiasi altra forma di potere a quello papale). Nel tentativo di arginare i conflitti, i Priori decisero di mandare in esilio molti illustri fiorentini, capi delle due parti nemiche. Dante, la vigilia di San Giovanni (23 giugno 1300), per quanto addolorato, approvò la decisione del priorato di esiliare i più turbolenti delle due parti (i Neri a Pieve al Toppo e i Bianchi a Saranza), anche se ciò significava colpire la stessa famiglia del poeta: tra coloro che vengono banditi vi fu il capo della fazione nera, Corso Donati, appartenente alla famiglia con cui Dante, in seguito al matrimonio con Gemma Donati, era imparentato; dovette altresì cacciare dalla città il suo grande amico, “bianco”, Guido Cavalcanti.
In esilio, Guido si ammalò e quasi subito morì. Chissà come si sentì Dante sapendo che aveva in parte causato la morte del suo migliore amico?! Non ne parlò mai.
Dante, volendo tener testa alta alle sottili manovre del pontefice, che tentava sempre più di intromettersi negli affari di Firenze, si accostò al partito dei Bianchi, i più avversi alla politica del Papa.
L’accordo tra Carlo di Valois e papa Bonifacio VIII – Dante allontanato da Firenze
Quando si venne a sapere che le truppe angioine di Carlo di Valois (fratello del re di Francia Filippo IV il Bello) scesero in Italia, Firenze inviò alcuni ambasciatori al papa per evitare di essere investita dalle truppe francesi (ottobre 1301). Tra gli ambasciatori era presente anche Dante. È probabile che il poeta fosse già stato a Roma l’anno prima, in quanto, nel 1300, Bonifacio VIII si era inventato il primo Giubileo della storia.
Purtroppo, però, fu tardi: l’accordo tra Carlo di Valois e papa Bonifacio VIII era già stipulato. Il primo novembre 1301, mentre Dante fu trattenuto con l’inganno a Roma, le truppe angioine entrarono a Firenze scatenando una dura repressione nei confronti dei nemici (anche la casa di Dante venne saccheggiata). Carlo destituì il governo dei Bianchi e richiamò i Neri dall’esilio. Gabrielli da Gubbio, nominato podestà di Firenze il 9 novembre 1301, accusò Dante di ribellione al papa e di baratterìa, ovvero di appropriazione indebita di denaro pubblico. Richiamato a Firenze per discolparsi, Dante non si presentò. Il 27 gennaio 1302 venne condannato dal podestà al pagamento di un’ammenda di cinquemila fiorini, a due anni di confino e al divieto a vita di partecipare al governo della città. Non avendo pagato la multa, il 10 marzo dello stesso anno, mentre soggiornava a Siena, venne condannato alla confisca dei beni e alla morte sul rogo.
I primi anni dell’esilio
La prima reazione di Dante fu una decisa volontà di rivincita: tra il 1302 e il 1304 partecipò alle iniziative militari dei fuoriusciti Bianchi per rientrare in patria (Firenze) con la forza. I Bianchi esiliati erano gente mediocre e per quanto riguarda le alleanze non era semplice trovare a chi appoggiarsi: lo schieramento si era troppo compromesso con il pontefice; aiutarli significava schierarsi apertamente contro il Papato. Tuttavia ci fu qualche breve combattimento (le guerre del Mugello), di scarso impegno e non decisivo. Con la sconfitta definitiva dei Bianchi nel 1304 nella battaglia della Lastra, Dante perse progressivamente la speranza di rientrare nella sua città. Il poeta, fidando nelle sole sue forze, decise di far «parte per se stesso».
Lasciata la Toscana, Dante iniziò una vita fatta di continui spostamenti da un luogo all’altro, sempre ospite di signori più o meno potenti, presso i quali svolse diversi incarichi. Si recò a Verona, per alcuni mesi, presso Bartolomeo della Scala; qui, «nel primo ostello» (primo rifugio), trovò una generosa ospitalità e instaurò un’amicizia con il giovane Can Francesco (fratello di Bartolomeo), il futuro Cangrande della Scala. Furono anni fecondi e produttivi dal punto di vista letterario: Dante compose i trattati De vulgari eloquentia e Convivio, rimasti incompiuti. Il De vulgari eloquentia è un trattato in lingua latina che vuole dimostrare l’importanza del volgare – il “volgare illustre” – a un pubblico di dotti, mentre il Convivio è un trattato in lingua volgare concepito come una serie di commenti in prosa di canzoni dal contenuto filosofico e teologico. L’intento di Dante era di offrire anche ai “non letterati” (a coloro che non conoscono il latino) la possibilità di partecipare a un “banchetto” – è questo il significato del titolo – di sapienza, che appagasse la “fame” di conoscenza, soprattutto filosofica. La stesura si interruppe al quarto libro.
Dopo il periodo veronese, di cui si ha testimonianza nella Divina Commedia, mancano notizie certe per poter ricostruire con precisione il peregrinare del poeta che, di città in città, inseguiva occasioni più o meno favorevoli, assolvendo, dove poteva, anche incarichi diplomatici per conto dei Signori che gli aprivano i portoni delle loro fortezze. Dante, spesso, chiese ospitalità ai vari Signori Ghibellini, dell’Italia settentrionale e centrale, in quanto i più vicini ai guelfi bianchi.
Tra il 1304-1306 fu accolto da Gherardo da Camino a Treviso, poi si spostò a Padova presso il marchese Francesco Malaspina in Lunigiana e successivamente (tra il 1307 e il 1311) a Poppi, nel Casentino, ospitato dal conte Guido da Battifolle. In quegli anni, probabilmente tra il 1304 e il 1308, scrisse la prima cantica della Commedia: l’Inferno. Quasi nulla si sa degli anni tra il 1308 e il 1311: forse fra il 1309 e il 1314 compose la seconda cantica della Commedia: il Purgatorio.
Al servizio dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo
Intorno al 1310 scese in Italia Enrico VII di Lussemburgo (chiamato da Dante “l’alto Arrigo” nella Divina Commedia), l’imperatore possente e generoso che avrebbe dovuto pacificare le città italiane, unificandole sotto il suo dominio. Dante, tutto preso, dal Casentino, gli scrisse un’Epistola spronandolo alla gloriosa impresa. Ma anche questa speranza svanì: gli scelleratissimi fiorentini, gelosi delle loro libertà comunali, si fecero promotori di un movimento di ostilità contro l’imperatore, che si estese rapidamente in tutta Italia. L’impresa di Arrigo fallì. Inoltre, Papa Clemente V revocò la promessa di allearsi con l’impero.
Nel 1311, a Milano, Dante incontrò l’imperatore; scrisse per lui una serie di epistole in latino, apertamente ispirate dall’ideologia ghibellina (l’imperatore è detto il “novello Messia”, il papa ha autorità solo nella sfera spirituale). La stessa ideologia permise a Dante di comporre il De monarchia, scritto o concluso pochi anni più tardi, dopo la morte di Enrico VII (24 agosto 1313). L’argomento centrale dell’opera è il potere imperiale: il titolo, infatti, significa “impero universale” e racchiude la convinzione della necessità del governo di un solo principe per la pace e la prosperità nel mondo. Nel trattato, Dante esprime le ragioni per cui tale convinzione risulta indiscutibilmente giusta ed elabora in modo approfondito il rapporto tra Chiesa Impero, le due massime autorità politico-morali del Medioevo.
Gli ultimi anni
Amareggiato più che mai per quanto accaduto, Dante, tra il 1313 e il 1319, trovò nuovamente ospitalità a Verona presso Cangrande della Scala. Alcune fonti sottolineano che Dante fosse rimasto nel Casentino, altre che si trovò in Toscana da Uguccione della Faggiola.
In quest’arco temporale revisionò l’Inferno e concluse il Purgatorio.
Nel 1315 Dante ricevette da Firenze un ultimo invito alla riconciliazione: in seguito alla sconfitta subita a opera dei ghibellini a Montecatini, agli esuli venne offerta la possibilità di rientrare. Il poeta, però, ritenne troppo umilianti le condizioni che prevedevano il pagamento di una multa e un rituale di pubblica ammenda (ovvero il riconoscimento ufficiale delle proprie colpe). Perse dunque qualsiasi residua speranza di rientrare in patria.
Ormai egli si sentì come «un legno senza nocchiere». Andò dove lo spinsero le vicende quotidiane.
Tra il 1319 e il 1321 Dante, probabilmente insieme ai suoi figli, fu ospite a Ravenna presso la corte di Guido Novello da Polenta. Qui concluse l’ultima cantica della Divina Commedia: il Paradiso. Forse nello Studio ravennate gli venne affidata una cattedra.
Nel 1321 si recò a Venezia per una missione diplomatica su incarico del Signore ravennate; durante il viaggio di ritorno si ammalò di febbri malariche e morì, all’età di 56 anni, a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre. Il suo corpo è sepolto a Ravenna, nei pressi dell’allora chiesa di San Pietro Maggiore, oggi di San Francesco.
La biografia di Dante Alighieri in breve (riassunto).